venerdì 11 gennaio 2008

lo specchio di Narciso

Estetica della pittura di Andrea Pinotti
recensione
di Michele Bertolini
“Quelle vanité que la peinture qui attire l’admiration par la ressemblance de choses dont on
admire point les originaux!”1.
Il severo motto pascaliano potrebbe risuonare in esergo di ogni teoria della pittura nella
misura in cui racchiude nella sua icastica formulazione alcuni dei paradossi che hanno
attraversato la lunga storia dell’estetica delle arti figurative: il potere estetico della pittura -
rappresentazione che si offre allo sguardo sotto l’aspetto di una presenza muta ma vivente -
risiederebbe nella sua capacità di trasfigurazione illusoria del reale e in una fascinazione dai
tratti magici peraltro confinata negli stretti limiti della restituzione del visibile e nelle reti del
sensibile.
L’estetica della pittura replica quindi nella sua lunga storia quei medesimi interrogativi che
investono anche il pensiero filosofico dalle sue origini, a partire dalla comune radice (idein,
vedere) che accomuna l’oggetto della conoscenza (idea, eidos) e l’oggetto della visione
(immagine, eidolon): la questione di un’estetica della pittura diventa in buona parte
l’interrogazione critica dei rapporti fra pittura e filosofia, fra immagine e pensiero, come
suggerisce l’agile ed esauriente testo Estetica della pittura di Andrea Pinotti, che viene ad
arricchire di un ulteriore, importante capitolo la collana “Il Lessico dell’Estetica” curata da
Remo Bodei per Il Mulino.
Nella ricognizione storico-critica dei problemi fondamentali che hanno percorso la riflessione
filosofica sulla pittura, offerta dalla prima parte del testo e restituita attraverso una serie di
coppie antitetiche (visibile/invisibile, figurativo/astratto, disegno/colore, forma/contenuto, per
citarne alcune), emerge l’intonazione costante di carattere insieme critico e fenomenologico
che percorre tutto il libro: l’esigenza di un’interrogazione teorica e concettuale della storia
dell’arte e della pratica delle arti figurative, coscientemente perseguita dai teorici di una
scienza dell’arte fra ‘800 e ‘900 (da Burckhardt e Wölfflin e Warburg, nobili padri
rispettivamente del formalismo e dell’iconologia), risponde alla volontà di ricercare le
condizioni di possibilità, gli a priori figurativi che rendono possibile la comprensione dello
sviluppo molteplice, apparentemente disordinato, della storia occidentale delle immagini.
Questa volontà critica si apre, nella terza parte, a un’interrogazione sui limiti, sulle
condizioni di possibilità dell’immagine pittorica e insieme sui suoi territori, ontologici e
cronologici, di confine: la forma concettuale dell’immagine pittorica appare quindi marcata
dalle figure dello specchio, dell’ombra, della cornice, del confine con le arti sorelle (poesia e
scultura in particolare), dal confronto con la trascendenza e lo spirituale propria della
dimensione dell’icona, mostrando la specificità della sua natura di dispositivo e insieme la
dinamicità, e contingenza, storico-temporale della nozione stessa di immagine-quadro (tanto
più evidente alla luce dell’arte contemporanea).
Nel percorso complesso e articolato delle diverse teorie della pittura, l’aneddotica e il
racconto mitico, prima ancora del linguaggio filosofico, costituiscono un filo rosso capace di
offrire continue e inedite sfumature di senso. Così, nella figura di Narciso e del suo riflesso
speculare, identificata come uno dei luoghi germinali della nascita dell’immagine pittorica, la
pittura si presenta quasi come un rovesciamento ontologico delle categorie portanti della
conoscenza e del sapere, segnata fin dalla sua origine da una mancanza e da una privazione
costitutiva. Narciso stesso, padre mitico della pittura secondo alcune tradizioni, appare come
1 B. Pascal, OEuvres complètes, texte établi et annoté par J. Chevalier, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris
1954, p. 1121.
un Socrate rovesciato, il cui destino, secondo la predizione di Tiresia, sarà lungo e felice a
patto di non conoscere se stesso, di restare ignoto a se stesso. Da ciò discende la lunga storia
platonica e neo-platonica delle ambiguità dello sguardo offerto dall’immagine pittorica, sia che
venga intesa come restituzione delle apparenze visibili capace di far sembrare reali delle
semplici ombre e di illudere l’osservatore con ingannevoli giochi di riflessi, sia che venga
interpretata come raffigurazione di un mondo di idee invisibili. La storia di questa ambiguità (e
dei paradossi che porta con sé, a partire dalla considerazione secondo cui la pittura realizza la
propria essenza nel momento in cui nega lo stesso carattere di immagine del dipinto, come nel
caso estremo del trompe l’oeil, uscendo così dal dominio dell’arte), coincide in buona parte,
come mostra la precisa ricognizione di Pinotti, con l’ambiguità del vedere e dell’occhio,
paradigma classico della conoscenza e del sapere fin dall’antichità, ben presto però diviso in un
sapere vero, intelligibile, e in una falsa conoscenza, ingannevole e seducente, legata e limitata
alle apparenze sensibili. La storia tormentata della gloria e dell’oscurità, del potere e dei limiti
dello sguardo, ora celebrato come senso nobile e veritativo, ora ripudiato in quanto sguardo
ingannevole, puramente sensibile, incapace di sollevarsi al di sopra delle reti del sensibile,
rivela lo stretto legame - la cui piena consapevolezza viene conquistata nel XVIII secolo - che
unisce l’estetica come teoria operativa della pittura a un’estetica della visione e dell’occhio, in
dinamica interazione con gli altri sensi, non potendo una teoria delle arti figurative “andar
disgiunta da un’estetica come teoria della sensibilità, cioè dell’aisthesis” [p. 16].
Il tragitto di questo percorso offre alcune discontinuità decisive: la pittura infatti, con alcune
significative eccezioni, Leonardo fra tutti, fino all’epoca moderna è considerata come una
sorella minore della filosofia, se non un’anti-filosofia, percorsa da un pathos conoscitivo (già
racchiuso nell’eros desiderante dello sguardo di Narciso che vuole abbracciare l’altro da sé) ma
incapace di realizzarsi al di fuori della ri-comprensione filosofica, e quindi consegnata a uno
sguardo cieco e muto, incapace di vedere le essenze e di comunicare il proprio sapere (come la
fine di Narciso testimonia).
La situazione muta in modo decisivo, aprendo il cammino alla modernità novecentesca, con
il Settecento, secolo in cui l’autonoma indagine sulle arti figurative, ancora percorsa dagli echi
del dibattito sul paragone fra pittura e poesia e del primato fra arti sorelle (pittura e scultura),
apre nuovi inediti orizzonti per la riflessione filosofica, quasi invertendo la bilancia dei valori nel
rapporto fra pittura e filosofia. Qui – e il passaggio risulta determinante come mostra con
precisione Pinotti – la riflessione sulle arti figurative con Du Bos, Diderot, Herder, Lessing,
Mendelssohn, scopre una dimensione conoscitiva - sensibile, corporea, estesica – immanente e
interna al fare e al produrre dell’attività artistica, dimensione che interroga, ponendosi in una
relazione problematica con esso, il pensiero filosofico già costituito. Da questo momento, che
coincide non a caso con il secolo al tempo stesso della nascita dell’estetica moderna e della
genesi dell’idea di individualità moderna (cui contribuisce in modo decisivo proprio la
precisazione della nozione estetica di gusto), è aperta la possibilità per il pieno riconoscimento
dell’autonomia di senso della pittura, la cui specifica techne, finalmente riconosciuta come
sapere capace di dominare e articolare la trama dell’apparire fenomenico, svela prassi
conoscitive radicate nella percezione e nell’esteticità del corpo. Il pensiero della pittura, ultimo
capitolo di un’estetica della pittura, che la filosofia novecentesca attraverso alcune significative
figure – Simmel, Heidegger, Merleau-Ponty, Deleuze, Lyotard, Foucault - ha cercato di esibire
come eccedenza e irriducibilità del figurativo o del figurale sul discorsivo, non costituisce quindi
soltanto un capitolo importante nella liberazione della ricchezza dell’immanenza sensibile e
nella rivalutazione dei poteri affettivi e conoscitivi della corporeità, ma diventa stimolo fecondo
per la filosofia a ripensare i propri limiti e ridefinire i suoi confini, attraverso il confronto con
alcuni protagonisti della pittura moderna e contemporanea (da Rembrandt analizzato con
attento sguardo morfologico da Simmel all’inizio del ‘900 a Bacon eletto da Deleuze nel 1982 a
punto nevralgico di una svolta figurale della pittura).
Il centro della riflessione contemporanea sull’immagine pittorica, anche alla luce dei recenti
visual studies, non appare più quindi probabilmente la rivendicazione della specificità
linguistica delle arti figurative, ma il riconoscimento di un luogo del pensiero abitato da un
senso immanente al sensibile, al corporeo, alla natura del dispositivo pittorico, alle pratiche
artistiche e formative che lo generano, e che non deve attendere nessuna “redenzione”
filosofica. L’esperienza di seduzione e conoscenza, fascinazione e desiderio, racchiusa
nell’incontro con l’immagine pittorica, non costituisce una paideia mancata (l’educazione
tragicamente interrotta di Narciso), un grado della visione incapace di superarsi nel coglimento
di una realtà ulteriore, ma il segno della nostra radicale incarnazione, della curvatura estetica
del pensiero che coglie l’invisibile (e certamente anche lo spirituale, il divino, come mostra la
riflessione sull’icona) soltanto sullo sfondo del visibile.
La raggiunta autonomia di senso della pittura, che i moderni discorsi sulla pittura
giustamente ancora rivendicano, non sembra costituire tuttavia un momento definitivo e
conclusivo di una possibile storia dell’estetica della pittura, anche e soprattutto alla luce di
molte manifestazioni dell’arte novecentesca e contemporanea. La riflessione del libro di Pinotti
non descrive perciò un percorso lineare né orientato verso un fine univoco, nella misura in cui
l’immagine pittorica appare attraversata fin dalla sua nascita da correnti che tendono a
metterne in discussione il carattere stesso di immagine, venendo ora intenzionata come idolo
performativo, capace di produrre effetti reali e magici sull’osservatore, ora come icona
puramente simbolica che rimanda transitivamente a una realtà altra, soprannaturale,
eccedente rispetto ai mezzi del dispositivo pittorico. Questa polarità segna lo spazio di una
dialettica di vicinanza e lontananza, di partecipazione e distanza, che attraversano la storia
dell’immagine e dello spettatore, e nella quale la visibilità, medium e condizione di possibilità
per il prodursi dell’immagine e del quadro, luogo di evocazione ma anche di controllo del
pathos e delle emozioni, appare oggi messa in discussione.
Se quindi oggi più che mai, come conclude l’autore, “il proprio della pittura si istituisce a
partire dal suo altro” [p. 235] (il luogo e il mercato dell’arte, la riproduzione, il confronto e
l’intreccio con le altre prassi artistiche e gli altri media, l’intreccio polisensoriale di numerose
installazioni), reclamando a maggior ragione la necessità di un discorso sulla pittura,
reciprocamente possiamo affermare, sulla scia dei suggestivi confronti fra filosofi e pittori
novecenteschi, che il pensiero (concettuale, discorsivo) scopre nell’immagine un altro da sé (e
non solo un alter ego del solipsismo di Narciso), capace di interrogare la filosofia e di produrre
un nuovo pensiero. Nello specchio di Narciso, nei luoghi della pittura, il pensiero vede sé e il
proprio altro da sé, così come l’estetica della pittura offre una mise en abîme della traiettoria
storica e teoretica dell’estetica stessa. Confermando nel rapporto di alterità e confronto fra
pittura e pensiero, fra immagine e concetto, l’intreccio costitutivo di eidos e eidolon, la radicale
curvatura estetica della noesis, quale destino insuperabile del pensiero.
Andrea Pinotti
Estetica della pittura
Il Mulino, Bologna 2007
pp. 255

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