mercoledì 30 luglio 2008

domenica 13 aprile 2008

La costituzione d'oggetto e la formulazione d'immagine


-Nel ripercorrere l’opera teorica di Brandi, D’Angelo si sofferma sull’annosa questione del rapporto che intercorre tra l’immagine artistica e la realtà – una problematica accantonata da Croce e riproposta con forza negli scritti brandiani. È proprio nel tentativo di sciogliere questo nodo teorico, che Brandi ha tracciato le coordinate della sua “teoria della creazione artistica”, individuando le due fasi del processo artistico: la costituzione d’oggetto e la formulazione d’immagine. La prima locuzione indica la selezione che l’artista opera sull’immagine dell’oggetto per approdare ad un’immagine che «non è affatto un duplicato dell’oggetto, ma in cui l’oggetto è sostanza conoscitiva e figuratività» (pag. 56). In sintonia con l’epoché di Husserl, la “costituzione” di Brandi richiede all’artista lo sforzo di separare l’oggetto dalla realtà in cui esso è immerso, di mettere tra parentesi l’esistenza dell’oggetto, per determinare l’arte come realtà pura. Tale distinzione si definisce nella produzione brandiana successiva come dicotomia tra flagranza e astanza, laddove la seconda sta a indicare l’irriducibilità dello spazio dell’opera d’arte allo spazio esistenziale, il suo carattere sensibile e intransitivo. Solo in seguito a questo primo momento (“la costituzione”) si perviene alla fase successiva della creazione artistica, ossia la “formulazione d’immagine”, che vede l’opera farsi esterna e tradursi nel suo aspetto fisico-materiale. La rappresentazione è quindi caratterizzata dal rapporto tra un elemento di opacità e uno di trasparenza, o con il registro di Brandi tra differenza e presenza. Il che equivale a dire che l’opera d’arte, nel darsi nel mondo come oggetto concreto (come esistente), rivela la possibilità del suo darsi (la differenza), e denuncia così la sua irriducibilità al mondo stesso (il suo essere). Secondo Brandi sono proprio le due fasi della creazione artistica (costituzione d’oggetto e formulazione d’immagine) a costituire lo “stile”. Esso non si esaurisce in un semplice ricettario desumibile dai caratteri dell’opera formulata, ma accompagna l’intero processo formativo dell’opera. Nell’individualità dell’opera d’arte, nella sua forma, cogliamo qualcosa che non si lascia ridurre ad essa, e che tuttavia si radica proprio nei suoi elementi materiali. In questo senso lo stile ha a che fare con la dimensione dell’opacità che innerva di sé ogni forma-opera d’arte determinata.-
[il riferimento è : Paolo D'Angelo "Cesare Brandi - Critica d'arte e filosofia" ed. Quodlibet]

venerdì 25 gennaio 2008

il rinnegamento del passato

Il rinnegamento del passato pregiudica inderogabilmente l'acquisizione
dell'orizzonte del futuro. Le arti visive coinvolte nell'assunto
avanguardistico della "novitas" ad ogni costo, partono proprio dalla volontà
(n.b.:VOLONTA') di scissione e rottura con la tradizione. Qui emerge
l'aporia dell'"avanguardia".L'Avanguardia è "impossibile":è il sintomo di
una situazione di crisi più profonda.
In realtà l'epoca moderna, in cui il soggetto vuole provare emozioni ma
senza assumersene la responsabilità individuale,
naufraga nell'impersonalità del SI anonimo:
si vive , si muore, e nel frattempo ci si contenta di feticci, di surrogati,
di succedanei, di vuoti stordimenti dai quali ci si fa vivere. Ecco perché
l'epoca moderna non ha bisogno dell'arte: perché non vi crede, ma non vi
crede perché non crede.
Assistiamo alla riduzione dell'essere all'esistere.L'opera d'arte subisce il
processo di feticizzazione alla stregua di qualsiasi altra merce.Occorre
abbandonare la patetica speranza in un messianico arresto dei processi di
omologazione, standardizzazione e banalizzazione dei significati, delle
idee, delle opere che il ciclo produzione-circolazione-consumo impone con
rinnovata vitalità. L'opera è prodotta, oggi, a partire dall'effetto che
deve ottenere sul pubblico considerato sub specie dell'acquirente, del
committente, del museo.
E' la logica del best-seller che si annette definitivamente anche il campo
delle arti visive. Ciò ha una ricaduta anche sulla critica e sulle sue
potenzialità conoscitive, perché l'interpretazione dell'opera è bloccata,
reificata, irrigidita in partenza : la decifrazione dei suoi significati è
sempre meno necessaria alla sua circolazione.Del resto,per la
critica,organizzare la propria identità al di fuori dei meccanismi della
produzione sociale, è un puro atto ideologico assolutamente impotente e
innocuo.
Ogni atto/iniziativa volontaristica ripropone un ridicolo scimmiottamento
della ideologia dell'avanguardia, ricade nel circuito inevitabile della
reificazione, agisce malesseri individuali e/o generazionali, si
caratterizza troppo spesso per ignoranza della storia dell'arte e della
critica, che non sia una superficiale conoscenza per "sommi capi",ipotizza
una delirante verginità rispetto al passato.
Non basta tenere presente che lo sguardo dell'artista e dell'acquirente sono
"diversi"? Chi oggi compra a caro prezzo un'opera di Basquiat, la guarda sul
muro bianco del suo tecnologico soggiorno come i cacciatori dell'800
guardavano la pelle della tigre abbattuta in un esotico safari.[E non è
detto che sbagli!]

[immagine:"Aereo bianco" olio 35X45 1997]

domenica 13 gennaio 2008

“Per sfociare nell’arte moderna bisogna arricchire le nostre esperienze spogliandole”: argomentazione di lapidaria chiarezza. Si potrebbe considerarla una sintetica teorizzazione di almeno tre ordini di questioni, attinenti il rapporto con la tradizione, la problematica tecnica, e in definitiva relative alla consistenza stessa di ciò che già all’epoca si definiva “arte moderna”, intendendo con questa locuzione un modo di concepire e produrre arte.
Carrà ci dice qui che l’“arte moderna” è qualcosa a cui si arriva, qualcosa che va oltre la naturalezza del pensiero usuale, del gesto pittorico consueto, delle tecniche apprese; o, per dire meglio, l’“arte moderna” è un alveo spirituale che può percorrersi solo revocando in dubbio le presunte naturalezze dello stile e della tecnica, sia pure avendo sempre in cuore l’incertezza di poter mai “sfociare” in un risultato plausibile.
L’incertezza dell’esito e la precarietà delle vie (delle esperienze) adatte a conseguirlo sono del resto un carattere specifico della condizione “moderna” dell’arte. Anzi: per Carrà, erano connaturate alla potenza immaginativa dell’arte contemporanea. Anni fa, citando una frase dell’artista, secondo cui “L’arte è un sogno sommamente voluttuoso; un sogno di disperata dolcezza; ma anche un sogno corporeo così denso di realtà da contenere forti pericoli” Italo Mussa commentava: “Ma quali erano i pericoli maggiori? Prima di tutto la ‘routine’, l’attaccamento acritico allo stile, la rinuncia al piacere introspettivo, l’indicibile spavento di fronte al ‘nuovo’. Carrà credeva nel nuovo umanesimo dei Valori Plastici, in cui intravedeva freudianamente l’intelligibilità dell’immaginazione. Perciò sfruttava al massimo l’abilità tecnica, per spremere poeticamente la plasticità della pittura” (Italo Mussa, Carrà: la pittura come geometrici deliri e cose ordinarie, in AA.VV., Carlo Carrà – L’opera grafica 1922-1964, Fabbri editori, Milano 1985, p.7). Sottile notazione, che forse andrebbe specificamente correlata ai disegni, nella loro umbratile emotività, nel loro scabro rigore inventivo.
Per Carrà l’“arte moderna” è precisamente quella che prova tanto rispetto e amore per la tradizione da non poterne fare a meno, e tuttavia ha tanto in sospetto la tradizione da ritenere di non poterla semplicemente abitare, di non potersi limitare a continuarla e a svilupparla; per cui l’“arte moderna” appare il risultato d’un duplice movimento, sostanzialmente dissonante ed anzi aporetico, di “arricchimento” e di “spoliazione”. (Sia detto per inciso: è luogo comune della critica notare il latente niccianesimo delle convinzioni teoriche e degli approdi di poetica di De Chirico. Viceversa, mi pare che solo di rado sia stato messo in luce il fatto che anche Carrà, a suo modo, e cioè innanzitutto con atteggiamenti meno esibiti di quelli propri del suo collega Metafisico, dimostri l’adesione all’orizzonte culturale della Krisis e della cosiddetta “scuola del sospetto”).
Arricchire e spogliare: da un lato si tratta dell’intuizione, cara alle Avanguardie, che “il meno è il più”; dall’altro, si potrebbe considerarla una versione novecentesca, ed anzi peculiarmente post-futurista ed “antigraziosa”, d’una antica definizione della bellezza, rintracciabile ad esempio in un pensatore come Hemsterhuis o addirittura in Winckelmann. Ma, tratto assolutamente personale, per Carrà quel duplice movimento doveva riguardare non solo il passaggio dall’emozione visiva a quella formale, né doveva limitarsi a concernere la tramatura compositiva dell’immagine: viceversa, doveva mettere in discussione il più basilare ed intimo elemento dell’artisticità dell’artista, cioè la sua tecnica. Dipingere e disegnare ogni volta come se fosse la prima. Decisione coraggiosa, e coraggiosamente coerente con l’ipotesi che l’“arte moderna” si qualifichi proprio per quel quanto di originario che l’artista ha saputo infondervi, o che ha saputo ritrovarvi.
Si sa, quell’originario per Carrà coincideva con un preciso elemento culturale (ma si direbbe anche esistenziale, connaturato ad un paesaggio, ad una nascita, ad un vissuto personale): il romanico. Matrice culturale, o reviviscenza e ritrovamento d’una origine, che spesso nel corpus dei disegni balena con lampante evidenza, stante l’assenza dell’implicazione emotiva e sensuale sempre presente nel colore. Tuttavia, si tratta di suggestioni rese forse ancora più chiare in disegni pervasi da una certa atmosfera da bassorilievo, e da un’attonita indifferenza per lo spazio “reale”, sostituito da una spazialità a volte perfino più spaurita di quella, già incommensurabile, delle prove metafisiche.
Parlando delle prove iniziali del Carrà disegnatore, e del suo arduo lavoro di “scavo”, di ricerca simultaneamente compositiva ed emozionale, Russoli scriveva: “Forse il primo e più probante esempio di questo metodo di faticoso scavo è il disegno preparatorio per il dipinto del 1908, I Cavalieri dell’Apocalisse. Il motivo simbolista [...] dà spunto a Carrà per una incredibilmente decisa ripulsa di ogni sfruttamento della linea e del chiaroscuro in senso ambiguamente evocativo; niente trame filamentose, né vapori nebbiosi. Ma una composizione scarna, figure che si accampano impacciate e slogate nello spazio, costrutte faticosamente da un segno morbido che si inceppa in profili scheggiati, in insistenze e riprese. Tanto da far pensare a prima vista, per chi non avesse la verifica dei documenti, che si tratti di un’opera posteriore di quasi un decennio, del tempo cioè del neo-primitivismo [...]. Se è ancora consentito parlare di continuità dei caratteri culturali di un luogo e di una comunità umana, di tramandi antropologici, i blocchi vibranti e incerti delle forme di Carrà avevano la vitalità lenta delle monumentali immagini del romanico padano: come esse crescevano faticosamente alla luce. Struttura e commozione, romanico e romantico, sono i termini entro cui si è mosso sempre il lavoro di Carrà, in ogni sua fase stilistica”. (Franco Russoli, Il disegno di Carrà, in F. Russoli, M. Carrà, Carrà – Disegni, Grafis, Bologna 1977, p.119).
In altre parole, depurare, spogliare il dato della tradizione significa negarla ed allo stesso tempo significa ritrovarla; ogni dipinto e ogni disegno non ancora fatto, e quindi poi compiuto come se fosse la prima volta, reca in sé l’aspro stigma romantico dell’infrazione a qualunque regola, e simultaneamente fa intuire un qualcosa di incontestabilmente antico. Anzi: eterno. Perché, di cosa si tratta se non di un’apparizione per immagini d’un (sia pure soggettivo, e legato all’immanenza dello hic et nunc) eterno ritorno dell'eguale?
Beninteso, quell’“eguale” è un che di perduto una volta per tutte, o forse di non mai posseduto, e l’artista sa od intuisce che nessuna forma già data gli consente di evocarlo, di imitarlo, di ridargli vita. Come aveva già teorizzato Baudelaire, destino dell’artista nell’epoca delle macchine e del trionfo delle immagini è inventare il nuovo, ogni volta come se fosse la prima, sperando che quel nuovo porti con sé l’originario, e l’eterno. In definitiva, proprio in questa consapevolezza consiste la modernità di Carlo Carrà; e, in definitiva, tale consapevolezza fonda le ragioni della sua classicità.(da Giuseppe Frazzetto)

Carlo Carrà

"Per sfociare nell'arte moderna bisogna arricchire le nostre esperienze
spogliandole": argomentazione di lapidaria chiarezza. Si potrebbe
considerarla una sintetica teorizzazione di almeno tre ordini di questioni,
attinenti il rapporto con la tradizione, la problematica tecnica, e in
definitiva relative alla consistenza stessa di ciò che già all'epoca si
definiva "arte moderna", intendendo con questa locuzione un modo di
concepire e produrre arte.
Carrà ci dice qui che l'"arte moderna" è qualcosa a cui si arriva, qualcosa
che va oltre la naturalezza del pensiero usuale, del gesto pittorico
consueto, delle tecniche apprese; o, per dire meglio, l'"arte moderna" è un
alveo spirituale che può percorrersi solo revocando in dubbio le presunte
naturalezze dello stile e della tecnica, sia pure avendo sempre in cuore l'incertezza
di poter mai "sfociare" in un risultato plausibile.
L'incertezza dell'esito e la precarietà delle vie (delle esperienze) adatte
a conseguirlo sono del resto un carattere specifico della condizione
"moderna" dell'arte. Anzi: per Carrà, erano connaturate alla potenza
immaginativa dell'arte contemporanea. Anni fa, citando una frase dell'artista,
secondo cui "L'arte è un sogno sommamente voluttuoso; un sogno di disperata
dolcezza; ma anche un sogno corporeo così denso di realtà da contenere forti
pericoli" Italo Mussa commentava: "Ma quali erano i pericoli maggiori? Prima
di tutto la 'routine', l'attaccamento acritico allo stile, la rinuncia al
piacere introspettivo, l'indicibile spavento di fronte al 'nuovo'. Carrà
credeva nel nuovo umanesimo dei Valori Plastici, in cui intravedeva
freudianamente l'intelligibilità dell'immaginazione. Perciò sfruttava al
massimo l'abilità tecnica, per spremere poeticamente la plasticità della
pittura" (Italo Mussa, Carrà: la pittura come geometrici deliri e cose
ordinarie, in AA.VV., Carlo Carrà - L'opera grafica 1922-1964, Fabbri
editori, Milano 1985, p.7). Sottile notazione, che forse andrebbe
specificamente correlata ai disegni, nella loro umbratile emotività, nel
loro scabro rigore inventivo.
Per Carrà l'"arte moderna" è precisamente quella che prova tanto rispetto e
amore per la tradizione da non poterne fare a meno, e tuttavia ha tanto in
sospetto la tradizione da ritenere di non poterla semplicemente abitare, di
non potersi limitare a continuarla e a svilupparla; per cui l'"arte moderna"
appare il risultato d'un duplice movimento, sostanzialmente dissonante ed
anzi aporetico, di "arricchimento" e di "spoliazione". (Sia detto per
inciso: è luogo comune della critica notare il latente niccianesimo delle
convinzioni teoriche e degli approdi di poetica di De Chirico. Viceversa, mi
pare che solo di rado sia stato messo in luce il fatto che anche Carrà, a
suo modo, e cioè innanzitutto con atteggiamenti meno esibiti di quelli
propri del suo collega Metafisico, dimostri l'adesione all'orizzonte
culturale della Krisis e della cosiddetta "scuola del sospetto").
Arricchire e spogliare: da un lato si tratta dell'intuizione, cara alle
Avanguardie, che "il meno è il più"; dall'altro, si potrebbe considerarla
una versione novecentesca, ed anzi peculiarmente post-futurista ed
"antigraziosa", d'una antica definizione della bellezza, rintracciabile ad
esempio in un pensatore come Hemsterhuis o addirittura in Winckelmann. Ma,
tratto assolutamente personale, per Carrà quel duplice movimento doveva
riguardare non solo il passaggio dall'emozione visiva a quella formale, né
doveva limitarsi a concernere la tramatura compositiva dell'immagine:
viceversa, doveva mettere in discussione il più basilare ed intimo elemento
dell'artisticità dell'artista, cioè la sua tecnica. Dipingere e disegnare
ogni volta come se fosse la prima. Decisione coraggiosa, e coraggiosamente
coerente con l'ipotesi che l'"arte moderna" si qualifichi proprio per quel
quanto di originario che l'artista ha saputo infondervi, o che ha saputo
ritrovarvi.
Si sa, quell'originario per Carrà coincideva con un preciso elemento
culturale (ma si direbbe anche esistenziale, connaturato ad un paesaggio, ad
una nascita, ad un vissuto personale): il romanico. Matrice culturale, o
reviviscenza e ritrovamento d'una origine, che spesso nel corpus dei disegni
balena con lampante evidenza, stante l'assenza dell'implicazione emotiva e
sensuale sempre presente nel colore. Tuttavia, si tratta di suggestioni rese
forse ancora più chiare in disegni pervasi da una certa atmosfera da
bassorilievo, e da un'attonita indifferenza per lo spazio "reale",
sostituito da una spazialità a volte perfino più spaurita di quella, già
incommensurabile, delle prove metafisiche.
Parlando delle prove iniziali del Carrà disegnatore, e del suo arduo lavoro
di "scavo", di ricerca simultaneamente compositiva ed emozionale, Russoli
scriveva: "Forse il primo e più probante esempio di questo metodo di
faticoso scavo è il disegno preparatorio per il dipinto del 1908, I
Cavalieri dell'Apocalisse. Il motivo simbolista [...] dà spunto a Carrà per
una incredibilmente decisa ripulsa di ogni sfruttamento della linea e del
chiaroscuro in senso ambiguamente evocativo; niente trame filamentose, né
vapori nebbiosi. Ma una composizione scarna, figure che si accampano
impacciate e slogate nello spazio, costrutte faticosamente da un segno
morbido che si inceppa in profili scheggiati, in insistenze e riprese. Tanto
da far pensare a prima vista, per chi non avesse la verifica dei documenti,
che si tratti di un'opera posteriore di quasi un decennio, del tempo cioè
del neo-primitivismo [...]. Se è ancora consentito parlare di continuità dei
caratteri culturali di un luogo e di una comunità umana, di tramandi
antropologici, i blocchi vibranti e incerti delle forme di Carrà avevano la
vitalità lenta delle monumentali immagini del romanico padano: come esse
crescevano faticosamente alla luce. Struttura e commozione, romanico e
romantico, sono i termini entro cui si è mosso sempre il lavoro di Carrà, in
ogni sua fase stilistica". (Franco Russoli, Il disegno di Carrà, in F.
Russoli, M. Carrà, Carrà - Disegni, Grafis, Bologna 1977, p.119).
In altre parole, depurare, spogliare il dato della tradizione significa
negarla ed allo stesso tempo significa ritrovarla; ogni dipinto e ogni
disegno non ancora fatto, e quindi poi compiuto come se fosse la prima
volta, reca in sé l'aspro stigma romantico dell'infrazione a qualunque
regola, e simultaneamente fa intuire un qualcosa di incontestabilmente
antico. Anzi: eterno. Perché, di cosa si tratta se non di un'apparizione per
immagini d'un (sia pure soggettivo, e legato all'immanenza dello hic et
nunc) eterno ritorno dell'eguale?
Beninteso, quell'"eguale" è un che di perduto una volta per tutte, o forse
di non mai posseduto, e l'artista sa od intuisce che nessuna forma già data
gli consente di evocarlo, di imitarlo, di ridargli vita. Come aveva già
teorizzato Baudelaire, destino dell'artista nell'epoca delle macchine e del
trionfo delle immagini è inventare il nuovo, ogni volta come se fosse la
prima, sperando che quel nuovo porti con sé l'originario, e l'eterno. In
definitiva, proprio in questa consapevolezza consiste la modernità di Carlo
Carrà; e, in definitiva, tale consapevolezza fonda le ragioni della sua
classicità.(da Giuseppe Frazzetto)

venerdì 11 gennaio 2008

saper vedere

Come si guarda un'opera d'arte
La metodologia di Matteo Marangoni
In Italia il critico d'arte Matteo Marangoni (Firenze 1876 - Pisa 1958) introduceva negli anni '20, la prima grammatica e sintassi storica italiana della forma artistica, centrando l'attenzione sui "valori figurativi" delle opere d’arte, secondo la lezione di Heinrich Wolfflin e Benedetto Croce. Tali lezioni furono stampate nel 1932 con il titolo (ispirato al genio di Leonardo da Vinci): "Saper vedere". La pubblicazione ebbe un enorme successo, raggiungendo ben venti edizioni italiane e altre numerose straniere. In pratica Marangoni esemplificò le fondamentali forme visive esaminando opere d'arte di varie civiltà e di tutti i tempi, scelte perché presentavano i differenti " valori figurativi ", in base a determinate affinità, in accezioni limpide e marcate, anche senza definite relazioni storiche, al di fuori di tradizioni canoniche o preminenze culturali.
Marangoni rifuggiva, infatti, da ogni definizione generale e unitaria di stili o forme per individualizzare, invece, i valori figurativi come identità o persone espressive in termini unici, irripetibili e non generalizzabili, .caratterizzate per mezzo di una serie di “ coppie “ di valori paralleli, antagonisti tra di loro, quali:
• Soggetto
• Contenuto/ forma
• "Verosimiglianza"
• Sentimento/sentimentalismo • Drammaticità
• Movimento
• Edonismo
• Colore
• "Bello"/ "Brutto"

v. Matteo Marangoni, Saper vedere. Come si guarda un'opera d'arte. Garzanti Editore, 1947, 1986

"savant" e "su"

-Credo che un vero amore per l'arte sia un dono, quanto il crearla; e può anche essere che entrambi scaturiscano dalla stessa sorgente mentale. (da Tramonto e crepuscolo)
-Pare che l'arte fiorisca meglio là dove l'uomo deve correggere la natura, dove non è scoraggiato dalla sua abbondanza. (da Tramonto e crepuscolo)
-In che modo un oggetto che non mi dà nessun piacere a riconoscerlo nel vero, diventa, in pittura, l'origine di un godimento estetico? E in che modo un oggetto, piacevole in natura, mi dà un piacere più e più intenso, a ritrovarlo in un'opera d'arte? La risposta, a mio vedere, dipende dal fatto che l'arte esalta ad insolita attività i comuni processi psichici da cui derivano tutti, o quasi, i nostri piaceri; e li immunizza da sensazioni fisiche disturbatrici. (da I pittori italiani del Rinascimento)
-Nell'arte della pittura – in quanto distinta, si osservi bene, dall'arte del colorire –, quello che conta è stimolare in qualche modo la coscienza dei valori tattili; affinché il dipinto valga almeno l'oggetto rappresentato nella capacità di stimolare l'immaginazione tattile. (da I pittori italiani del Rinascimento)
[Bernhard Berenson]



[opera di G.Barbisan]

lo specchio di Narciso

Estetica della pittura di Andrea Pinotti
recensione
di Michele Bertolini
“Quelle vanité que la peinture qui attire l’admiration par la ressemblance de choses dont on
admire point les originaux!”1.
Il severo motto pascaliano potrebbe risuonare in esergo di ogni teoria della pittura nella
misura in cui racchiude nella sua icastica formulazione alcuni dei paradossi che hanno
attraversato la lunga storia dell’estetica delle arti figurative: il potere estetico della pittura -
rappresentazione che si offre allo sguardo sotto l’aspetto di una presenza muta ma vivente -
risiederebbe nella sua capacità di trasfigurazione illusoria del reale e in una fascinazione dai
tratti magici peraltro confinata negli stretti limiti della restituzione del visibile e nelle reti del
sensibile.
L’estetica della pittura replica quindi nella sua lunga storia quei medesimi interrogativi che
investono anche il pensiero filosofico dalle sue origini, a partire dalla comune radice (idein,
vedere) che accomuna l’oggetto della conoscenza (idea, eidos) e l’oggetto della visione
(immagine, eidolon): la questione di un’estetica della pittura diventa in buona parte
l’interrogazione critica dei rapporti fra pittura e filosofia, fra immagine e pensiero, come
suggerisce l’agile ed esauriente testo Estetica della pittura di Andrea Pinotti, che viene ad
arricchire di un ulteriore, importante capitolo la collana “Il Lessico dell’Estetica” curata da
Remo Bodei per Il Mulino.
Nella ricognizione storico-critica dei problemi fondamentali che hanno percorso la riflessione
filosofica sulla pittura, offerta dalla prima parte del testo e restituita attraverso una serie di
coppie antitetiche (visibile/invisibile, figurativo/astratto, disegno/colore, forma/contenuto, per
citarne alcune), emerge l’intonazione costante di carattere insieme critico e fenomenologico
che percorre tutto il libro: l’esigenza di un’interrogazione teorica e concettuale della storia
dell’arte e della pratica delle arti figurative, coscientemente perseguita dai teorici di una
scienza dell’arte fra ‘800 e ‘900 (da Burckhardt e Wölfflin e Warburg, nobili padri
rispettivamente del formalismo e dell’iconologia), risponde alla volontà di ricercare le
condizioni di possibilità, gli a priori figurativi che rendono possibile la comprensione dello
sviluppo molteplice, apparentemente disordinato, della storia occidentale delle immagini.
Questa volontà critica si apre, nella terza parte, a un’interrogazione sui limiti, sulle
condizioni di possibilità dell’immagine pittorica e insieme sui suoi territori, ontologici e
cronologici, di confine: la forma concettuale dell’immagine pittorica appare quindi marcata
dalle figure dello specchio, dell’ombra, della cornice, del confine con le arti sorelle (poesia e
scultura in particolare), dal confronto con la trascendenza e lo spirituale propria della
dimensione dell’icona, mostrando la specificità della sua natura di dispositivo e insieme la
dinamicità, e contingenza, storico-temporale della nozione stessa di immagine-quadro (tanto
più evidente alla luce dell’arte contemporanea).
Nel percorso complesso e articolato delle diverse teorie della pittura, l’aneddotica e il
racconto mitico, prima ancora del linguaggio filosofico, costituiscono un filo rosso capace di
offrire continue e inedite sfumature di senso. Così, nella figura di Narciso e del suo riflesso
speculare, identificata come uno dei luoghi germinali della nascita dell’immagine pittorica, la
pittura si presenta quasi come un rovesciamento ontologico delle categorie portanti della
conoscenza e del sapere, segnata fin dalla sua origine da una mancanza e da una privazione
costitutiva. Narciso stesso, padre mitico della pittura secondo alcune tradizioni, appare come
1 B. Pascal, OEuvres complètes, texte établi et annoté par J. Chevalier, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris
1954, p. 1121.
un Socrate rovesciato, il cui destino, secondo la predizione di Tiresia, sarà lungo e felice a
patto di non conoscere se stesso, di restare ignoto a se stesso. Da ciò discende la lunga storia
platonica e neo-platonica delle ambiguità dello sguardo offerto dall’immagine pittorica, sia che
venga intesa come restituzione delle apparenze visibili capace di far sembrare reali delle
semplici ombre e di illudere l’osservatore con ingannevoli giochi di riflessi, sia che venga
interpretata come raffigurazione di un mondo di idee invisibili. La storia di questa ambiguità (e
dei paradossi che porta con sé, a partire dalla considerazione secondo cui la pittura realizza la
propria essenza nel momento in cui nega lo stesso carattere di immagine del dipinto, come nel
caso estremo del trompe l’oeil, uscendo così dal dominio dell’arte), coincide in buona parte,
come mostra la precisa ricognizione di Pinotti, con l’ambiguità del vedere e dell’occhio,
paradigma classico della conoscenza e del sapere fin dall’antichità, ben presto però diviso in un
sapere vero, intelligibile, e in una falsa conoscenza, ingannevole e seducente, legata e limitata
alle apparenze sensibili. La storia tormentata della gloria e dell’oscurità, del potere e dei limiti
dello sguardo, ora celebrato come senso nobile e veritativo, ora ripudiato in quanto sguardo
ingannevole, puramente sensibile, incapace di sollevarsi al di sopra delle reti del sensibile,
rivela lo stretto legame - la cui piena consapevolezza viene conquistata nel XVIII secolo - che
unisce l’estetica come teoria operativa della pittura a un’estetica della visione e dell’occhio, in
dinamica interazione con gli altri sensi, non potendo una teoria delle arti figurative “andar
disgiunta da un’estetica come teoria della sensibilità, cioè dell’aisthesis” [p. 16].
Il tragitto di questo percorso offre alcune discontinuità decisive: la pittura infatti, con alcune
significative eccezioni, Leonardo fra tutti, fino all’epoca moderna è considerata come una
sorella minore della filosofia, se non un’anti-filosofia, percorsa da un pathos conoscitivo (già
racchiuso nell’eros desiderante dello sguardo di Narciso che vuole abbracciare l’altro da sé) ma
incapace di realizzarsi al di fuori della ri-comprensione filosofica, e quindi consegnata a uno
sguardo cieco e muto, incapace di vedere le essenze e di comunicare il proprio sapere (come la
fine di Narciso testimonia).
La situazione muta in modo decisivo, aprendo il cammino alla modernità novecentesca, con
il Settecento, secolo in cui l’autonoma indagine sulle arti figurative, ancora percorsa dagli echi
del dibattito sul paragone fra pittura e poesia e del primato fra arti sorelle (pittura e scultura),
apre nuovi inediti orizzonti per la riflessione filosofica, quasi invertendo la bilancia dei valori nel
rapporto fra pittura e filosofia. Qui – e il passaggio risulta determinante come mostra con
precisione Pinotti – la riflessione sulle arti figurative con Du Bos, Diderot, Herder, Lessing,
Mendelssohn, scopre una dimensione conoscitiva - sensibile, corporea, estesica – immanente e
interna al fare e al produrre dell’attività artistica, dimensione che interroga, ponendosi in una
relazione problematica con esso, il pensiero filosofico già costituito. Da questo momento, che
coincide non a caso con il secolo al tempo stesso della nascita dell’estetica moderna e della
genesi dell’idea di individualità moderna (cui contribuisce in modo decisivo proprio la
precisazione della nozione estetica di gusto), è aperta la possibilità per il pieno riconoscimento
dell’autonomia di senso della pittura, la cui specifica techne, finalmente riconosciuta come
sapere capace di dominare e articolare la trama dell’apparire fenomenico, svela prassi
conoscitive radicate nella percezione e nell’esteticità del corpo. Il pensiero della pittura, ultimo
capitolo di un’estetica della pittura, che la filosofia novecentesca attraverso alcune significative
figure – Simmel, Heidegger, Merleau-Ponty, Deleuze, Lyotard, Foucault - ha cercato di esibire
come eccedenza e irriducibilità del figurativo o del figurale sul discorsivo, non costituisce quindi
soltanto un capitolo importante nella liberazione della ricchezza dell’immanenza sensibile e
nella rivalutazione dei poteri affettivi e conoscitivi della corporeità, ma diventa stimolo fecondo
per la filosofia a ripensare i propri limiti e ridefinire i suoi confini, attraverso il confronto con
alcuni protagonisti della pittura moderna e contemporanea (da Rembrandt analizzato con
attento sguardo morfologico da Simmel all’inizio del ‘900 a Bacon eletto da Deleuze nel 1982 a
punto nevralgico di una svolta figurale della pittura).
Il centro della riflessione contemporanea sull’immagine pittorica, anche alla luce dei recenti
visual studies, non appare più quindi probabilmente la rivendicazione della specificità
linguistica delle arti figurative, ma il riconoscimento di un luogo del pensiero abitato da un
senso immanente al sensibile, al corporeo, alla natura del dispositivo pittorico, alle pratiche
artistiche e formative che lo generano, e che non deve attendere nessuna “redenzione”
filosofica. L’esperienza di seduzione e conoscenza, fascinazione e desiderio, racchiusa
nell’incontro con l’immagine pittorica, non costituisce una paideia mancata (l’educazione
tragicamente interrotta di Narciso), un grado della visione incapace di superarsi nel coglimento
di una realtà ulteriore, ma il segno della nostra radicale incarnazione, della curvatura estetica
del pensiero che coglie l’invisibile (e certamente anche lo spirituale, il divino, come mostra la
riflessione sull’icona) soltanto sullo sfondo del visibile.
La raggiunta autonomia di senso della pittura, che i moderni discorsi sulla pittura
giustamente ancora rivendicano, non sembra costituire tuttavia un momento definitivo e
conclusivo di una possibile storia dell’estetica della pittura, anche e soprattutto alla luce di
molte manifestazioni dell’arte novecentesca e contemporanea. La riflessione del libro di Pinotti
non descrive perciò un percorso lineare né orientato verso un fine univoco, nella misura in cui
l’immagine pittorica appare attraversata fin dalla sua nascita da correnti che tendono a
metterne in discussione il carattere stesso di immagine, venendo ora intenzionata come idolo
performativo, capace di produrre effetti reali e magici sull’osservatore, ora come icona
puramente simbolica che rimanda transitivamente a una realtà altra, soprannaturale,
eccedente rispetto ai mezzi del dispositivo pittorico. Questa polarità segna lo spazio di una
dialettica di vicinanza e lontananza, di partecipazione e distanza, che attraversano la storia
dell’immagine e dello spettatore, e nella quale la visibilità, medium e condizione di possibilità
per il prodursi dell’immagine e del quadro, luogo di evocazione ma anche di controllo del
pathos e delle emozioni, appare oggi messa in discussione.
Se quindi oggi più che mai, come conclude l’autore, “il proprio della pittura si istituisce a
partire dal suo altro” [p. 235] (il luogo e il mercato dell’arte, la riproduzione, il confronto e
l’intreccio con le altre prassi artistiche e gli altri media, l’intreccio polisensoriale di numerose
installazioni), reclamando a maggior ragione la necessità di un discorso sulla pittura,
reciprocamente possiamo affermare, sulla scia dei suggestivi confronti fra filosofi e pittori
novecenteschi, che il pensiero (concettuale, discorsivo) scopre nell’immagine un altro da sé (e
non solo un alter ego del solipsismo di Narciso), capace di interrogare la filosofia e di produrre
un nuovo pensiero. Nello specchio di Narciso, nei luoghi della pittura, il pensiero vede sé e il
proprio altro da sé, così come l’estetica della pittura offre una mise en abîme della traiettoria
storica e teoretica dell’estetica stessa. Confermando nel rapporto di alterità e confronto fra
pittura e pensiero, fra immagine e concetto, l’intreccio costitutivo di eidos e eidolon, la radicale
curvatura estetica della noesis, quale destino insuperabile del pensiero.
Andrea Pinotti
Estetica della pittura
Il Mulino, Bologna 2007
pp. 255