domenica 13 gennaio 2008

“Per sfociare nell’arte moderna bisogna arricchire le nostre esperienze spogliandole”: argomentazione di lapidaria chiarezza. Si potrebbe considerarla una sintetica teorizzazione di almeno tre ordini di questioni, attinenti il rapporto con la tradizione, la problematica tecnica, e in definitiva relative alla consistenza stessa di ciò che già all’epoca si definiva “arte moderna”, intendendo con questa locuzione un modo di concepire e produrre arte.
Carrà ci dice qui che l’“arte moderna” è qualcosa a cui si arriva, qualcosa che va oltre la naturalezza del pensiero usuale, del gesto pittorico consueto, delle tecniche apprese; o, per dire meglio, l’“arte moderna” è un alveo spirituale che può percorrersi solo revocando in dubbio le presunte naturalezze dello stile e della tecnica, sia pure avendo sempre in cuore l’incertezza di poter mai “sfociare” in un risultato plausibile.
L’incertezza dell’esito e la precarietà delle vie (delle esperienze) adatte a conseguirlo sono del resto un carattere specifico della condizione “moderna” dell’arte. Anzi: per Carrà, erano connaturate alla potenza immaginativa dell’arte contemporanea. Anni fa, citando una frase dell’artista, secondo cui “L’arte è un sogno sommamente voluttuoso; un sogno di disperata dolcezza; ma anche un sogno corporeo così denso di realtà da contenere forti pericoli” Italo Mussa commentava: “Ma quali erano i pericoli maggiori? Prima di tutto la ‘routine’, l’attaccamento acritico allo stile, la rinuncia al piacere introspettivo, l’indicibile spavento di fronte al ‘nuovo’. Carrà credeva nel nuovo umanesimo dei Valori Plastici, in cui intravedeva freudianamente l’intelligibilità dell’immaginazione. Perciò sfruttava al massimo l’abilità tecnica, per spremere poeticamente la plasticità della pittura” (Italo Mussa, Carrà: la pittura come geometrici deliri e cose ordinarie, in AA.VV., Carlo Carrà – L’opera grafica 1922-1964, Fabbri editori, Milano 1985, p.7). Sottile notazione, che forse andrebbe specificamente correlata ai disegni, nella loro umbratile emotività, nel loro scabro rigore inventivo.
Per Carrà l’“arte moderna” è precisamente quella che prova tanto rispetto e amore per la tradizione da non poterne fare a meno, e tuttavia ha tanto in sospetto la tradizione da ritenere di non poterla semplicemente abitare, di non potersi limitare a continuarla e a svilupparla; per cui l’“arte moderna” appare il risultato d’un duplice movimento, sostanzialmente dissonante ed anzi aporetico, di “arricchimento” e di “spoliazione”. (Sia detto per inciso: è luogo comune della critica notare il latente niccianesimo delle convinzioni teoriche e degli approdi di poetica di De Chirico. Viceversa, mi pare che solo di rado sia stato messo in luce il fatto che anche Carrà, a suo modo, e cioè innanzitutto con atteggiamenti meno esibiti di quelli propri del suo collega Metafisico, dimostri l’adesione all’orizzonte culturale della Krisis e della cosiddetta “scuola del sospetto”).
Arricchire e spogliare: da un lato si tratta dell’intuizione, cara alle Avanguardie, che “il meno è il più”; dall’altro, si potrebbe considerarla una versione novecentesca, ed anzi peculiarmente post-futurista ed “antigraziosa”, d’una antica definizione della bellezza, rintracciabile ad esempio in un pensatore come Hemsterhuis o addirittura in Winckelmann. Ma, tratto assolutamente personale, per Carrà quel duplice movimento doveva riguardare non solo il passaggio dall’emozione visiva a quella formale, né doveva limitarsi a concernere la tramatura compositiva dell’immagine: viceversa, doveva mettere in discussione il più basilare ed intimo elemento dell’artisticità dell’artista, cioè la sua tecnica. Dipingere e disegnare ogni volta come se fosse la prima. Decisione coraggiosa, e coraggiosamente coerente con l’ipotesi che l’“arte moderna” si qualifichi proprio per quel quanto di originario che l’artista ha saputo infondervi, o che ha saputo ritrovarvi.
Si sa, quell’originario per Carrà coincideva con un preciso elemento culturale (ma si direbbe anche esistenziale, connaturato ad un paesaggio, ad una nascita, ad un vissuto personale): il romanico. Matrice culturale, o reviviscenza e ritrovamento d’una origine, che spesso nel corpus dei disegni balena con lampante evidenza, stante l’assenza dell’implicazione emotiva e sensuale sempre presente nel colore. Tuttavia, si tratta di suggestioni rese forse ancora più chiare in disegni pervasi da una certa atmosfera da bassorilievo, e da un’attonita indifferenza per lo spazio “reale”, sostituito da una spazialità a volte perfino più spaurita di quella, già incommensurabile, delle prove metafisiche.
Parlando delle prove iniziali del Carrà disegnatore, e del suo arduo lavoro di “scavo”, di ricerca simultaneamente compositiva ed emozionale, Russoli scriveva: “Forse il primo e più probante esempio di questo metodo di faticoso scavo è il disegno preparatorio per il dipinto del 1908, I Cavalieri dell’Apocalisse. Il motivo simbolista [...] dà spunto a Carrà per una incredibilmente decisa ripulsa di ogni sfruttamento della linea e del chiaroscuro in senso ambiguamente evocativo; niente trame filamentose, né vapori nebbiosi. Ma una composizione scarna, figure che si accampano impacciate e slogate nello spazio, costrutte faticosamente da un segno morbido che si inceppa in profili scheggiati, in insistenze e riprese. Tanto da far pensare a prima vista, per chi non avesse la verifica dei documenti, che si tratti di un’opera posteriore di quasi un decennio, del tempo cioè del neo-primitivismo [...]. Se è ancora consentito parlare di continuità dei caratteri culturali di un luogo e di una comunità umana, di tramandi antropologici, i blocchi vibranti e incerti delle forme di Carrà avevano la vitalità lenta delle monumentali immagini del romanico padano: come esse crescevano faticosamente alla luce. Struttura e commozione, romanico e romantico, sono i termini entro cui si è mosso sempre il lavoro di Carrà, in ogni sua fase stilistica”. (Franco Russoli, Il disegno di Carrà, in F. Russoli, M. Carrà, Carrà – Disegni, Grafis, Bologna 1977, p.119).
In altre parole, depurare, spogliare il dato della tradizione significa negarla ed allo stesso tempo significa ritrovarla; ogni dipinto e ogni disegno non ancora fatto, e quindi poi compiuto come se fosse la prima volta, reca in sé l’aspro stigma romantico dell’infrazione a qualunque regola, e simultaneamente fa intuire un qualcosa di incontestabilmente antico. Anzi: eterno. Perché, di cosa si tratta se non di un’apparizione per immagini d’un (sia pure soggettivo, e legato all’immanenza dello hic et nunc) eterno ritorno dell'eguale?
Beninteso, quell’“eguale” è un che di perduto una volta per tutte, o forse di non mai posseduto, e l’artista sa od intuisce che nessuna forma già data gli consente di evocarlo, di imitarlo, di ridargli vita. Come aveva già teorizzato Baudelaire, destino dell’artista nell’epoca delle macchine e del trionfo delle immagini è inventare il nuovo, ogni volta come se fosse la prima, sperando che quel nuovo porti con sé l’originario, e l’eterno. In definitiva, proprio in questa consapevolezza consiste la modernità di Carlo Carrà; e, in definitiva, tale consapevolezza fonda le ragioni della sua classicità.(da Giuseppe Frazzetto)

Nessun commento: